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La scienza della manipolazione

Manipolazione significa che qualcuno riesce a farti sentire tuoi i bisogni suoi illudendoti di essere libero nelle tue scelte.

Spesso la manipolazione fa leva sulle paure e sulle insicurezze della persona o del gruppo più o meno grande di persone, quando quelle paure non ci sono o sono poco presenti vanno create. 

Nella nostra convinzione di vivere democraticamente, possiamo e sappiamo decidere autonomamente su ogni aspetto della nostra vita, purtroppo gli esperimenti di psicologia sociale ci tolgono ogni illusione. L’uomo (Homo sapiens sapiens) risulta essere altamente manipolabile quanto ampiamente inconsapevole della sua condizione e vive questa sua inconsapevolezza in una società estremamente diversa da quella convenzionalmente creduta. Già nel quinto secolo prima di Cristo i colti greci venivano indotti ad assistere gratuitamente, quanto doverosamente, alle cerimonie di tipo religioso con forti valenze sociali conosciute come “tragedie”, strumenti di psicologia politica educativa, attraverso cui si costruiva una “coscienza sociale” .

Oggi la scienza della manipolazione continua ad essere finemente utilizzata dai grandi poteri per lo studio e l’applicazione della Psicologia Politica. Un mezzo attraverso cui le persone non scelgono chi debba governarle, ma vengono indotte a interiorizzare ideali e bisogni come propri. Sondaggi, intercettazioni, profilazioni, comunicazioni mediatiche volte a stimolare odio, speranza, paura, sensi di colpa, emozioni, aspettative, tali da giustificare norme e leggi che ben poco hanno a che fare con la vera democrazia. 

Il mondo è governato da personaggi diversi da quelli che immaginano coloro che non gettano lo sguardo dietro alla quinte.

Benjamin Disraeli 1844

Se un tempo la cultura era l’arma più efficace per costruire una capacità critica, oggi purtroppo è spesso divenuta la tomba di questa capacità. Nel processo di “gaslighting” (manipolazione psicologica maligna) le persone sono vittime di sistemi di comunicazione che, attraverso una serie ben costruita di sillogismi, creano uno stato di insicurezza riguardo alle loro convinzioni. In questo modo si crea una falsa realtà parallela e funzionale agli scopi degli stessi manipolatori. 

Sul  giornale delle scienze psicologiche troviamo una definizione del termine:

Pur non basandosi su atti di violenza fisica, il gaslighting è una forma di abuso, una violenza insidiosa, che lascia profonde ferite psicologiche e che si verifica quando una persona (il gaslighter) ne manipola un’altra per farla dubitare dei suoi giudizi, pensieri, valutazioni con l’obiettivo di convincerla a considerare le proprie percezioni, credenze o ricordi come inaffidabili; questo obiettivo viene ottenuto negando la veridicità di quanto affermato dalla vittima e insinuando che il suo giudizio sia poco credibile perché è la persona stessa ad avere qualcosa che non va (Stark 2019). 

Si tratta di un’interazione tra un gaslighter, che ha bisogno di avere ragione per mantenere controllo e potere, e una vittima, che permette al gaslighter di definire il suo senso di realtà perché lo idealizza e ne cerca l’approvazione. Proprio in questa ricerca di approvazione e validazione inizia a manifestarsi il pericolo (Stern, 2007). 

Il risultato delle tattiche del gaslighter fa sì che la vittima sperimenti confusione, dubbi su di sé e senta il bisogno di ritirarsi, allontanandosi così da altre persone significative. La manipolazione del gaslighting prevede varie tattiche ingannevoli come il diniego di quanto la vittima afferma e sperimenta, oppure il presentare false informazioni in modo da disorientarla e confonderla. Tipicamente infatti il gaslighter modifica la verità sfidando i ricordi e la memoria della vittima in un modo talmente convincente che la vittima stessa inizia a mettere in dubbio la sua sanità mentale (Hightower, 2017).⟫.

Questo termine è stato considerato la parola dell’anno nel 2022 e su un articolo “Repubblica”  scrive: ⟪ Fu Ingrid Bergman ad interpretare la protagonista femminile nella versione cinematografica di Gaslight (1944), thriller psicologico diretto da George Cukor che le valse un premio Oscar alla recitazione. Nella pellicola, il cui titolo italiano è tradotto con Angoscia, si assiste alla caduta nell’abisso di una donna manipolata da marito fino al punto di dubitare di sé stessa.

Il gaslighting è un mezzo di controllo molto efficace che viene “somministrato” in modo graduale attraverso singoli eventi che nel tempo costruiscono un’immagine di fiducia proprio nei confronti del manipolatore. Oggi una mente attenta può notare con quale potente finezza si riesca a far passare dei concetti attraverso molti fronti apparentemente non collegati tra di loro. Lo stesso concetto “edulcorato” lo possiamo ritrovare in un film, in uno spettacolo televisivo, in una lezione universitaria, in un libro, in una conferenza e in molte altre situazioni. 

Un esempio di come questo processo sia veramente subdolo lo possiamo ritrovare proprio nello stesso articolo che spiega il significato del termine “gaslighting”, infatti l’autrice scrive: ⟪ il contesto del gaslighting oggi si sta allargando anche alla politica e all’informazione. L’atto o la pratica di sviare, ingannare qualcuno per il proprio tornaconto lo troviamo in un contesto molto contemporaneo, in cui la manipolazione arriva attraverso le fake news e i deep fake a diffondere teorie cospirazioniste per descrivere menzogne che fanno parte di un grande piano ⟫.

In questo modo l’autrice si assicura di non farsi tagliare il pezzo, anzi collabora con la grande azione di contrasto a coloro che con pochi mezzi cercano di resistere alla manipolazione globale spinta da chi ormai guida il mondo.

Questo processo manipolativo, ormai così capillarizzato da renderci vittime inconsapevoli, potremmo paragonarlo al principio della rana bollita, che inizialmente è felice di trovare il confort dell’acqua tiepida, ma quando l’acqua diventa troppo calda, tanto da toglierle le energie per saltare fuori dalla pentola, la rana finirà per essere bollita.

Personalmente percepisco questo periodo storico come una grande pentola da cui vorrei stare fuori per evitare di essere bollito, ma allo stesso tempo vorrei evitare di cadere dalla pentola nella brace.

Approfitto di un post di un signore che si presenta come laureato in Medicina-

Perché i No-Vax ancora non si rendono conto di avere torto marcio?

nessun Partito o movimento di opinione, se non in Corea del Nord, può aspirare al 100% ed il vaccino Covid, in Italia, 90% ma considerando i giovanissimi non vaccinati sul 95%, è stato un successo clamoroso. Il problema che qui non si pone, non è rendersene più o meno conto… ma “conversare” con dei diplomati alle serali che spieghino al colto ed all’inclita la rava e la fava di un argomento che per loro è fisica delle particelle narrata al Bantu con arco e frecce. Sono i riflessi divertenti delle virtù dei Social che danno eco anche alle macchiette da Bar dello Sport ed alle casalinghe di Voghera. Folclore.

Indipendentemente dalle convinzioni di ognuno credo che sia evidente l’arroganza, la supponenza e purtroppo l’ignoranza (basta constatare i terribili effetti avversi che stanno venendo alla luce ogni giorno) di una persona che nella sua vita dovrà occuparsi della salute del prossimo. Sono anche convinto che il modo di esprimersi e le convinzioni di questo signore siano il risultato della moderna evoluzione manipolatoria e purtroppo, fatto ancora più grave di una formazione estremamente deficitaria in un ambito che invece richiede menti pensanti con alto grado di capacità critica. A questo proposito metto di seguito un raccapricciante articolo da cui possiamo comprendere come nell’arco del tempo ci siano sempre state forti pressioni manipolatorie da parte dei più forti.

Nell’estate del 1943, ad una madre polacca che viveva nella Polonia occupata dai nazisti, fu ordinato di portare suo figlio di 5 anni nella sala consiliare del suo comune, la mattina successiva. Suo figlio aveva capelli biondi e occhi azzurri. Quando sua madre si rifiutò di obbedire agli ordini, le SS presero il bambino con la forza, lo caricarono su un treno e lo portarono via. Anni dopo, quando suo figlio tornò a casa grazie a uno speciale programma di ricongiungimento, la donna scoprirà con orrore ciò che era stato fatto a suo figlio: il lavaggio del cervello era stato tale che, quando questi vide suo padre rimuovere dal muro la foto dell’ormai defunto e sconfitto Hitler, lo definì un traditore.

Come lei, centinaia di migliaia di madri vissero lo stesso dramma durante l’occupazione nazista. Si stima che soltanto in Polonia furono rapiti circa 200.000 bambini, e altrettanti furono rapiti nel resto d’Europa, per un totale di circa 400.000 bambini.

Lo scopo di questo folle piano, incluso nel più ampio “Piano Generale per l’Oriente”, cioè nel piano generale per la pulizia etnica dell’Est Europa, era quello di rapire i bambini dall’aspetto ariano, condurli in speciali centri di rieducazione, e “germanizzarli”. In un discorso tenuto nell’Ottobre 1943, Heinrich Himmler disse “E’ nostro dovere prendere i loro bambini con noi, toglierli dal loro ambiente, se necessario sequestrandoli o rubandoli, e mandarli in Germania”.

Oggi la manipolazione si serve di mezzi più moderni per l’informazione di massa. In tutto il mondo sono attivi 1500 giornali, 1100 riviste, 9000 stazioni radio, 1500 canali TV, e 2400 case editrici, tutte sono di proprietà di solo 6 aziende. Le notizie dei media occidentali sono gestite da solo tre agenzie a livello internazionale

Sono ormai 20 anni che ho staccato la televisione perché ritengo che ascoltare qualunque tipo di notiziario sia dannoso oltre che inutile.

Nel 1961 lo psicologo americano Stanley Milgram condusse un famoso esperimento sull’obbedienza all’autorità sugli ebrei fuggiti dall’est Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, Milgram cercò di capire come i tedeschi avessero ottenuto collaborazioni allo sterminio degli stessi Ebrei. 

Selezionò, quindi un gruppo di individui a cui fece credere di collaborare ad una ricerca sulla memoria di apprendimento ed affidò loro i ruoli di allievo e di insegnante con un sorteggio truccato in modo tale che il soggetto si credesse sempre un insegnante.

Ognuno di questi soggetti venne condotto in una stanza da dove poteva vedere l’allievo da una vetrata ed aveva a disposizione sulla scrivania un quadro di controllo elettrico. Il quadro composto da 30 pulsanti permetteva di inviare una scarica elettrica progressivamente più forte all’allievo, sotto ad ogni pulsante era specificato il voltaggio e una scritta che indicava il grado di pericolosità della scarica. 

Il soggetto doveva leggere all’allievo alcune coppie di parole e proporre delle associazioni e poi stabilire se la risposta fosse corretta e in caso negativo inviare una scarica progressivamente più forte all’allievo nella stanza attigua. 

Gli attori incaricati di interpretare gli allievi simularono gli effetti delle scariche con grida ed informazioni sempre più drammatiche legate all’aumento di intensità delle scosse. 

Sotto l’incoraggiamento dello sperimentatore il 65% dei partecipanti premette fino all’ultimo tasto consapevoli di infliggere dolore e persino procurare danni fisici all’allievo. 

Questo esperimento portò alla luce un aspetto terribile della mente umana, 

il grado di obbedienza che spinse i soggetti a violare i propri principi morali è stato spiegato con la subordinazione a un’autorità considerata legittima in grado di indurre uno stato eteronomico (dipendenza da leggi o criteri estranei o esterni alla volontà del soggetto) di deresponsabilizzazione del soggetto. Questo particolare stato mentale sembra poggiare le basi per primo sulla convinzione della legittimità in quanto richiesto da un’istituzione riconosciuta, secondo l’aderire ad un sistema che riconosce l’autorità di quell’istituzione, terzo la pressione sociale verso il rispetto delle regole che non si discutono in quanto richieste ed indicate da un rappresentante istituzionale.

Quindi l’obbedienza di quel 65% tra i soggetti facenti parte dell’esperimento dipende dall’accettare di compiere un’azione immorale e dannosa a fronte dell’accettazione incondizionata dell’autorità istituzionale che porta a considerare quell’azione necessaria.

La manipolazione al fine di distruggere l’immagine del nemico

I detrattori dell’Omeopatia descrivono il suo fondatore Christian Friedrich Samuel Hahnemann come un Medico mediocre poco capace e di serie B, descrizione che contrasta con la vera storia di questo genio.

                                                              (tratto da alcuni articoli ripresi sul web)

Bambino prodigio, a soli dodici anni sostituisce alle lezioni di greco il suo professore e già a quell’età conosceva perfettamente parecchie lingue. In soli quattro anni si laurea con lode in medicina a Erlangen nel 1779. Diventa grande e geniale Medico, Chimico, Botanico, Fisico e Traduttore. Dopo la laurea iniziò l’attività clinica e divenne un affermato professionista:

  • Dal 1781 al 1784 ricoprì la carica di ufficiale sanitario sorvegliante delle farmacie della provincia di Gommern
  • Nel 1785 si trasferì a Dresda, dove lavorò come traduttore di testi medici e venne nominato direttore dell’Ospedale locale di Dresda

Nonostante le numerose soddisfazioni, Hahnemann iniziò ben presto a rendersi conto dei limiti della medicina convenzionale nella cura di alcune patologie.

Un giorno del 1789, Hahnemann cadde in una profonda crisi spirituale nei confronti della medicina tradizionale, definita da lui “Allopatica”, priva di metodo scientifico e fondata su principi contraddittori.

Questa crisi lo portò ad allontanare tutti i suoi abituali pazienti dallo studio poiché si rese improvvisamente conto di non poterli più guarire con i principi della medicina classica.

L’insoddisfazione per le terapie del momento lo spinse ad abbandonare in modo definitivo la sua professione e a trasferirsi a Lipsia dove iniziò a dedicarsi alla traduzione di testi scientifici. Solo negli anni 1785-1789 furono edite ben duemila sue pagine di traduzioni e di opere originali.

Durante la trasposizione in lingua di un capitolo del libro Materia Medica del dr. William Cullen sulla cura delle febbri intermittenti con la corteccia di China, Hahnemann decise di sperimentare la veridicità di questa sostanza e provare gli effetti su se stesso.

Dopo aver assunto la China, Hahnemann constatò la comparsa dei sintomi della “febbre intermittente”, gli stessi sintomi che la sostanza si prometteva di curare. Ritenne, allora, di aver scoperto una nuova legge terapeutica, ben diversa da quelle conclamate dalla medicina tradizionale contemporanea. La sua intuizione segnò l’inizio ufficiale della Medicina Omeopatica e l’affermazione di due importanti principi:

  • le sostanze naturali assunte alle dosi abituali ponderali provocano specifici disturbi nei soggetti sani
  • le stesse sostanze assunte a basse dosi sono in grado di guarire quegli stessi disturbi (Similia similibus curantur, “il principio dei simili”)

Questo principio affermava, quindi, che le malattie si guariscono con medicamenti che producono nel soggetto sano i sintomi caratteristici del morbo da combattere, e non è forse questo il principio con cui vengono somministrati i tanto declamati vaccini?

Nacque così l’Omeopatia. Nella storia del pensiero medico occidentale Hahnemann è il primo e l’unico Medico e pensatore che rompe completamente con tutti gli schemi scientifici, mentali e metodologici sino allora conosciuti in medicina. È il primo che nella storia del pensiero medico occidentale sperimenta farmaci su uomini sani (volontari) per capirne gli effetti e la patogenesi delle sostanze, applicando fino all’esasperazione il metodo galileiano: osservare attentamente ciascun fenomeno naturale, risalire dalla osservazione di più fenomeni alla ricerca della legge generale che li governa, riprodurre il fenomeno seguendo la legge che lo ha prodotto. (non ha forse anticipato i tempi della così detta Medicina Scientifica delle evidenze?). 

È il primo che adotta il periodo di quarantena nelle epidemie di colera e separa i malati da quelli non ancora contagiati. È il primo che considera l’ammalato nella sua globalità di mente, corpo e ambiente, è il primo che pone attenzione sui sintomi eziologici, il primo che si adopera per condizioni più umane verso i malati di mente ecc.; prima di lui nessun altro medico aveva osato spingersi tanto avanti. Fu perseguitato e ferocemente osteggiato dalla classe medica imperante.

Hahnemann e la disciplina omeopatica vennero aspramente e continuamente contestati dalla corporazione dei farmacisti che gli rimproverano il principio, da lui professato, secondo il quale: “ognuno aveva il diritto di produrre i rimedi con i quali curarsi”.

L’ostilità della classe farmaceutica e di quella medica lo costrinse, nel 1799, a traferirsi ad Amburgo dove però i suoi studi sull’Omeopatia continuarono ad essere avversati.

Nonostante le difficoltà, la Medicina Omeopatica iniziò a diffondersi in Europa e negli Stati Uniti ed Hahnemann continuò le sperimentazioni pubblicando diversi libri:

  • L’Organon dell’Arte del Guarire (1810), sui principi base dell’Omeopatia e sulle critiche alle pratiche mediche contemporanee
  • Trattato di Materia Medica Pura (1811-1821), sulle sperimentazioni di numerose sostanze
  • Trattato delle Malattie Croniche (1828)

Nel 1835, a seguito di seconde nozze con un’artista francese, abbandona la Sassonia e si trasferisce a Parigi dove esercita l’Omeopatia con grande scrupolo e passione.

Hahnemann muore nel 1843 all’età di 88 anni, lasciando un’impronta importantissima per la Medicina Omeopatica. Oltre ad aver rappresentato il capostipite di questa disciplina, egli fu il punto di riferimento e il maestro di illustri omeopati come Costantin Hering, G.H.G. Jahr, Von Boenninghausen.

La sua opera ed il suo metodo sono tuttora oggetto di diatriba e accese discussioni. Nonostante l’Omeopatia abbia subito per oltre duecento anni gli attacchi più feroci, i boicottaggi più incredibili, le pubblicazioni più infamanti e ostracismi di ogni tipo, oggi essa è diffusa e praticata in quasi tutti i paesi del mondo in costante e continua crescita. L’Omeopatia è sicuramente la metodica terapeutica che raccoglie in sé più prove scientifiche di ogni altro metodo curativo e nel contempo più opposizioni da parte del mondo accademico di tutte le altre terapie non convenzionali.

Il motivo di questa avversione è senz’altro dovuto al fatto che accettare il dato che sostanze estremamente diluite riescano a provocare modificazioni nei substrati biologici (fenomeno già ampiamente dimostrato e confermato in numerosi test di laboratorio) richiederebbe da parte degli oppositori un profondo cambiamento dei loro schemi mentali, tale da costringerli a rivedere gran parte delle loro dogmatiche conoscenze chimico-fisiche. Per questo motivo l’Omeopatia è ancora oggi in quarantena: accettata e praticata da molti medici in diverse nazioni, rifiutata da tanti altri; elevata agli onori universitari in alcuni Paesi, messa al bando in altri; tollerata in alcuni ambienti accademici universitari, messa all’indice in altri.

Oggi troviamo addirittura libri scritti da Medici molto più bravi ad apparire che ad essere, che affermano di sapere che l’Omeopatia non può funzionare, da informazioni facilmente reperibili sappiamo anche delle loro relazioni ed interessi con le case produttrici di farmaci chimici.

Dopo la doverosa sintetica descrizione della vita del fondatore dell’Omeopatia ritorno all’argomento del titolo di questo capitolo rifacendomi ad un articolo del mio sito “darsi tempo”.

Come ci insegna l’epigenetica, gran parte del carattere e della personalità sono frutto delle esperienze e dell’interazione con l’ambiente che ha quindi il potere di “forgiarci”. 

È importante quindi imparare a discriminare ciò che ci viene dall’ambiente e ciò che è innato e impulsivo, cercando di renderci autonomi nell’analizzarlo con coraggio. 

La motivazione è alla base di tutto ciò che scegliamo di fare, ma se la nostra formazione è frutto dell’interazione con l’ambiente in cui viviamo e cresciamo, occorre conoscere, analizzare e sviscerare le caratteristiche di questo ambiente. Un compito estremamente difficile ma importante per comprendere e discriminare i nostri bisogni primari, quelli utili alla nostra vita e quelli indotti. 

Oltrepassando i bisogni fisiologici, percepiamo (o dovremmo percepire) il bisogno di sentirci liberi di scegliere, pur coscienti che l’essere umano ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo in cui sviluppare relazioni positive. 

Le motivazioni che ci portano ad agire partono da impulsi diversi tra loro, il primo (più vero e profondo) fa capo al senso del piacere di agire in relazione al sentire più profondo, il secondo è determinato dalla mancata possibilità di soddisfare parte del primo a causa del vivere sociale e quindi “mediare” il raggiungimento della soddisfazione attraverso i “comportamenti accettati”. 

Il terzo (terribile) il senso di incompetenza ci porta a delegare, (questo mi ricorda una famosa canzone di Giorgio Gaber). 

I vari gradi di socializzazione hanno una enorme responsabilità nella formazione della personalità che si struttura a partire dai fattori innati, il comportamento imposto dal rispetto delle più o meno rigide regole sociali porta ad un grado variabile di interiorizzazione delle regole stesse e di conseguenza alla maggiore o minore dipendenza dalla gratificazione del premio o dalla paura della punizione. 

La società moderna tende ad accentuare il bisogno di appartenenza al “gruppo più forte” e in seno a quello avere riconoscimento, visibilità, successo economico, fama, potremmo definirli bisogni indotti che pretendono in cambio la onerosa controparte dell’allineamento agli indirizzi dominanti. 

Dopo alcune letture sugli aspetti sociali che riguardano la libertà individuale nei paesi industrializzati e democratici, si può giungere ad una non esilarante conclusione e cioè che ai nostri giorni, ma forse anche in passato, non abbiamo la libertà di autodeterminarci, (vedi significato) pur con la convinzione di essere pienamente liberi di pensare e agire. 

Il principio di AUTODETRMINAZIONE 

(ripreso dalla tesi del Dott. Daniele Cornacchione e da un articolo del Dott. Andrea Pintimalli)

Cosa intendiamo per autodeterminazione in psicologia?

Il concetto di autodeterminazione, inizialmente associato a scenari diplomatici e politici per spiegare come una nazione affermi la sua indipendenza, assume un significato più personale, attingendo al campo della psicologia. L’autodeterminazione in psicologia si riferisce alla capacità di un individuo di fare scelte e prendere decisioni che sono allineate con i propri interessi, valori e credenze personali. È un concetto centrale nella psicologia umanistica e nella psicologia positiva, che enfatizzano l’importanza dell’autonomia e dell’autoefficacia nell’ottenere il benessere psicologico. L’autodeterminazione è vista come un diritto fondamentale dell’individuo e un prerequisito per il raggiungimento del potenziale umano.

Cosa dice la teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan?

La teoria dell’autodeterminazione (TAD), sviluppata da Edward L. Deci e Richard M. Ryan, costituisce un importante quadro concettuale nell’ambito della psicologia motivazionale. Questa teoria postula che il comportamento umano è guidato da diverse forme di motivazione, che variano nella loro natura e influenza sulla performance e sul benessere psicologico. Negli ultimi decenni la teoria dell’autodeterminazione è diventata uno dei framework teorici più studiati e conosciuti grazie alla sua validità pratica e alla sua versatilità in molteplici contesti. La TAD ha riscosso successo anche in molte branche della psicologia moderna, dalla psicologia sociale alle neuroscienze cognitive. Di seguito sono riassunti i principali concetti della teoria.

Con il termine autodeterminazione Deci e Ryan indicano la possibilità dell’individuo di direzionare il proprio agire in linea con le proprie predisposizioni, interessi e valori.

La SDT ( Self-determination theory ) suggerisce che il benessere e le performance degli individui siano strettamente collegate al tipo di motivazione degli stessi. Una delle grandi novità della SDT, infatti, è proprio quella di interessarsi al costrutto motivazionale non da un punto di vista quantitativo, bensì da un punto di vista qualitativo.

In una prima fase embrionale della teoria E. Deci fece un’importante distinzione tra quella da lui definita “motivazione autonoma” (riconducibile al costrutto già in precedenza esplorato di motivazione intrinseca) e “motivazione regolata” (o motivazione estrinseca). La motivazione autonoma descrive l’agire del soggetto in una condizione in cui esso percepisce un pieno senso di libertà e scelta. A prescindere dall’attività in questione, nel momento in cui il soggetto è interessato, stimolato e reputa godibile quello che sta facendo, egli sarà autonomamente/intrinsecamente motivato. Questo tipo di motivazione è comparabile al costrutto di esperienza di flusso, che sta ad indicare “uno stato in cui la persona si trova completamente assorta in un’attività per il suo proprio piacere e diletto, durante il quale il tempo vola e le azioni, i pensieri e i movimenti si succedono uno dopo l’altro, senza sosta” (Mihaly Csikszentmihalyi, 1975).

In contrasto, la motivazione regolata caratterizza i comportamenti messi in atto a partire da pressioni esterne al soggetto, ricompense e punizioni. In questa condizione il soggetto non è spinto ad agire dalla propria volontà bensì da fattori esterni che possono essere percepiti come più o meno oppressivi a seconda delle varie situazioni. Come dimostrato da diversi studi sull’argomento, la mancanza di autodeterminazione percepita in questa condizione può scatenare una serie di sensazioni e di emozioni negative come: frustrazione, senso di impotenza, rabbia, tristezza e abbassamento dell’autostima. Sebbene sia importante sottolineare come tali risposte emotive dipendano anche da differenze individuali, per una disciplina come la psicologia risulta fondamentale capire quali siano i meccanismi alla base di tali manifestazioni per intervenire in ottica preventiva e di promozione del benessere. Con il passare degli anni, in seguito agli studi di Ryan del 1985, il concetto di motivazione viene approfondito ulteriormente. La semplice differenziazione tra motivazione autonoma e controllata lasciò il posto ad un’analisi più dettagliata mirata a differenziare ulteriormente le forme di motivazione. Secondo questa nuova concezione le differenti forme di motivazione possono essere disposte su un continuum in base al grado di introiezione. Nell’estremo sinistro del continuum troviamo l’assenza di motivazione, anche chiamata demotivazione; che entra in gioco nel momento in cui il soggetto considera un’attività irrilevante o si considera incapace di raggiungere un determinato obiettivo (D’Alessio et al., 2007). In seguito vi è la motivazione estrinseca suddivisa in quattro sub-categorie: regolazione esterna, regolazione introiettata, regolazione per identificazione e regolazione integrata. La regolazione esterna è prevalentemente caratterizzata dalla presenza di rinforzi e punizioni provenienti dall’ambiente esterno. Il soggetto di per sé non metterebbe in atto il comportamento se non per ottenere un vantaggio secondario o perché spinto da forze coercitive e seduttive. In questa condizione non c’è alcun legame tra la volontà e il comportamento messo in atto, per questo il senso di autodeterminazione è estremamente ridotto.

Con l’espressione regolazione introiettata si indica, invece, la condizione in cui la persona si sente motivata da premi o punizioni autoimposti. Il comportamento è dovuto alla sensazione di “dover fare qualcosa” per evitare sensazioni angoscianti come ad esempio sensi di colpa ed ansia. Allo stesso tempo questa condizione può essere associata a sensazioni di fierezza e di soddisfazione per aver messo in atto un comportamento in linea con degli ideali morali socialmente riconosciuti. Proseguendo lungo il continuum, sempre nella sezione riguardante la motivazione estrinseca, troviamo la regolazione per identificazione. In questo assetto motivazionale viene data importanza all’attività da svolgere in quanto percepita come specifica del gruppo di appartenenza. Sebbene non si faccia riferimento alla dimensione del self, a partire da questo punto del continuum si può capire quanto le questioni identitarie possano essere rilevanti per l’orientamento del comportamento umano. In questa condizione troviamo un locus of control relativamente interno che aumenta notevolmente il senso di autodeterminazione percepito. La regolazione integrata, invece, fa riferimento ad un quadro in cui l’attività svolta viene percepita come espressione di sé, dei propri valori e credenze. Come dimostrato dallo studio di Pelletier, Fortier, Vallerand, e Briere del 2001, in condizioni di questo tipo vi è un forte senso di controllo sulle proprie scelte che va ad impattare sulla persistenza del comportamento nel tempo.

All’estremo del continuum troviamo la motivazione propriamente intrinseca. Il concetto di motivazione intrinseca fa riferimento all’interesse, alla curiosità e al coinvolgimento genuino in un’attività o un comportamento per il semplice piacere di farlo. La differenza sostanziale tra motivazione estrinseca integrata e motivazione intrinseca risiede nell’origine e nella natura delle ragioni sottese alla messa in atto del comportamento. La motivazione estrinseca integrata implica un allineamento tra obiettivi esterni e valori interni, mentre la motivazione intrinseca è guidata dalla genuina gioia e interesse nell’attività stessa. La prima, quindi, ha a che fare con aspetti legati ai valori e alla moralità, mentre la seconda è definita a partire dalle predisposizioni e dagli interessi personali. Il motivo per cui la regolazione integrata è definita come sub-categoria della motivazione estrinseca è dovuto all’origine sociale dei valori morali.

Nonostante questa differenziazione, secondo gli autori della teoria, entrambe queste forme di motivazione favoriscono l’autodeterminazione del soggetto in quanto fanno riferimento al concetto identitario di autonomia.

Se il libero pensiero e la piena consapevolezza di sé sono armi fondamentali per non cadere vittime dell’uniformità, è preoccupante leggere articoli sulle potenzialità che le IA (intelligenze artificiali) possono avere a livello sociale. Come sempre il dubbio si focalizza sul corretto utilizzo più che sulle stesse scoperte scientifiche. 

È davvero possibile essere vittime inconsapevoli della manipolazione a più livelli? Una domanda sconcertante a cui molti rispondono con una smorfia di incredulità. 

Ricercando si trova che per i termini coscienza e consapevolezza non ci sono spiegazioni univoche, la prima potremmo definirla lo spazio mentale che ci permette di comprendere di essere nel mondo mentre la seconda ci permette di dare un significato a ciò che percepiamo, insieme le due facoltà ci permettono la relazione con il mondo. 

Ma quanto possiamo essere consapevoli del nostro stato di libertà? Il filosofo greco Platone lo spiega con l’allegoria della grotta che rappresenta la realtà percepita solo attraverso la luce che entra, mentre la realtà vera è fuori. Quindi, come in un Truman show, se non siamo mai usciti dalla grotta è difficile avere la consapevolezza della realtà. Nel film Truman è inconsapevole del fatto che ogni sua scelta di vita è guidata dal creatore del programma, ed egli vive felice e inconsapevole di tutto questo. Quando inizia ad avere dei dubbi e sospettare qualcosa, non riesce comunque ad uscire dal mondo in cui è abituato a vivere, perché dominato dalle paure e dalle insicurezze che gli sono state inculcate fin dall’infanzia. 

……………… la “morale” è quella della libertà dell’uomo, basata sulla sua ragione. 

A conclusione del film, quando i dubbi portano il personaggio a ricercare la verità e la libertà, Truman (Tru-Man = Vero-Uomo) risponde al suo “padre-padrone”non hai una telecamera nella mia testa. 

E nonostante il regista creatore tenti la carta della paura come ultima chance e lo allerti sul pericolo che fuori troverà un mondo violento, ipocrita, sporco moralmente e fisicamente, a differenza del tranquillo e “disinfettato” Sea Heaven dove non ha mai avuto nulla da temere, Truman sceglie autonomamente. 

Il Vero-Uomo si gira, volta le spalle al suo “padre-padrone” e apre la porticina (una “porta stretta” e buia) che conduce al di fuori degli studi televisivi. 

Oggi si investono molti soldi nella manipolazione mentale e allo scopo si utilizzano gli organi di informazione (televisione in primis), ma anche la scuola, le università e molti altri ambiti. Per quanto evidente, non ci rendiamo conto di come il mondo mediatico e pericolosamente manipolatorio ci condiziona. Per quanto conosciute, almeno da alcuni, le tecniche di manipolazione mentale sono estremamente complesse e in una società controllata e manipolata come la nostra, non è compito facile spiegarle. 

Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo
                                                     Johann Wolfgang von Goethe.


Ci troviamo a vivere tra le raffinate tecniche di manipolazione mentale e quelle di anticipazione sfruttando le IA (intelligenze artificiali).
Nessuno accetta di sentirsi descrivere come manipolato, mentre è molto più facile lasciarsi convincere di essere liberi.


…. un’aquila convinta di di essere un pollo non volerà via dal pollaio


Oggi l’obiettivo dei media mira ad influire sulle decisioni, sui gusti, entra nella psiche dei cittadini, dei consumatori, dei risparmiatori, degli elettori. 

Le tecniche di comunicazione hanno reso pigre le persone divenendo terreno fertile dove veicolare le informazioni commerciali, politiche ed economiche. L’attenzione viene stimolata con l’emotività attraverso i programmi di intrattenimento, che paradossalmente vengono preferiti dalle inconsapevoli (e complici) vittime. 

Lo studio delle neuroscienze applicato alle tecniche di manipolazione che vengono “somministrate” attraverso la pseudo-infomazione mediatica, ha permesso di comprendere in maniera scientifica la reazione degli emisferi cerebrali in base alle modalità di somministrazione. Questo permette di indirizzare le scelte ed inquadrare le più o meno inconsapevoli vittime (cittadini) con una forma di “convincimento” fisicamente non violenta. 

Il controllo (molto stretto) dell’informazione è ormai generalizzato, TV, giornali, telegiornali, radio, web, tutti i mezzi di informazione, se vogliono mantenersi in vita, “devono” riferirsi alle rare agenzie di stampa di proprietà delle grandi holding bancarie. 

Il martellamento mediatico continuo e generalizzato a cui i cittadini vengono sottoposti è focalizzato su problematiche del tutto inutili nel senso dell’autodeterminazione popolare, ma emotivamente efficaci, come le scaramucce tra partiti, il problema dei rom, gli stupri, la microcriminalità, i femminicidi, ecc. Una volta riempita la testa con il gossip e altre notizie guidate, i lettori/ascoltatori sono saturi e non cercano la vera informazione, in questo modo “il sistema” dominante ottiene la collaborazione più o meno volontaria della popolazione. Chiunque voglia tentare di fare informazione libera viene soffocato, deriso, escluso, reso inoffensivo attraverso l’efficace costruzione di un’immagine negativa. 

Etimologicamente il termine informazione significa “dare forma” e si riferisce al pensiero, alla coscienza di ogni cittadino. Ogni grande dittatura ha fondato il proprio successo sul controllo dei mezzi di comunicazione allo scopo di “modellare” il pensiero comune. 

Nelle società basate sul consenso, una volta “formate” le coscienze, quell’informazione diventa una droga da cui è difficile staccarsi e di cui ogni vittima diventa feroce guardiano, in questo modo la governabilità va dove vuole senza bisogno di imposizione. 

Tra i mezzi di formazione guidata per eccellenza si posiziona la scuola, nessuno può mettere in dubbio la sua funzione formativa ed i programmi sono finemente studiati per agire sulle fresche e modellabili menti dei bambini fino agli studenti universitari. Per un osservatore meno “coinvolto” è abbastanza facile vedere come le nuove generazioni siano molto più efficienti nell’utilizzo delle moderne tecnologie, nello studio della moderna scienza voluta ed “edulcorata”, nel puntare alla velocità e all’efficientismo tecnologico e appariscente. Purtroppo queste nuove generazioni sono molto più fragili nei confronti della vita reale e sempre più dipendenti dal “sistema” di cui non dubitano e non devono dubitare. Basta pensare alla storia, il cui insegnamento dovrebbe sviluppare un pensiero critico verso gli errori già commessi in passato al fine di evitare di ripeterli, oppure alla scienza che dovrebbe essere un mezzo per rendere la vita più gradevole da vivere ed invece insegna, per fare un esempio, che la fame nel mondo potrà essere risolta con l’utilizzo degli alimenti transgenici (OGM). 

Le società del futuro hanno la strada segnata riguardo alla loro composizione, alla base, da una massa di lavoratori-consumatori-elettori ed alla testa da una élìte composta dai figli di coloro che sono già ai vertici del potere e a cui sarà riservato un livello di conoscenza privilegiato che consentirà loro di continuare a dirigere la società e mantenere il potere stabilito. 

Alcune non troppo evidenti statistiche ci dicono che la ricchezza mondiale è suddivisa in maniera indefinibile: 85 persone possiedono risorse quanto i 3,5 miliardi di persone più povere l’1% della popolazione possiede oltre il 48% della ricchezza mondiale; il 19% possiede ricchezza per l’altro 46,5% del totale; l’ 80% della popolazione mondiale si divide il restante 5,5% delle risorse. Un miliardo di persone vivono con un euro procapite al giorno, oltre 800.000 persone vivono nella totale indigenza (ovvero soffrono la fame). Ogni giorno muoiono per carenza di cibo oltre 24.000 persone. 

Negli ultimi anni la ricchezza è andata concentrandosi nelle tasche di un sempre più esiguo numero di persone. 

Questi dati anziché scandalizzare l’opinione pubblica sono in qualche modo più che giustificati da una evidente distorsione mentale che va intesa come il successo dell’azione manipolatoria protratta negli anni. 

Chi è capace di costruire un impero economico si merita la ricchezza, è la legge del mercato, sono le conclusioni a cui arrivano i “manipolati” divenuti poveri cani da guardia. A differenza dell’esempio di Adriano Olivetti, oggi un amministratore delegato guadagna oltre 500 volte quello che guadagna un operaio della stessa azienda e la cosa è considerata moralmente non solo accettabile, ma sacrosanta. 

Nel primo dopoguerra George Orwell scriveva: “Se il benessere e la sicurezza fossero divenuti un bene comune, la massima parte delle persone che di norma sono come immobilizzate dalla povertà si sarebbero alfabetizzate, apprendendo così a pensare autonomamente; e una volta che questo fosse successo, avrebbero compreso prima o poi che la minoranza privilegiata non aveva alcuna funzione e l’avrebbero spazzata via”. 

Con il senno di poi mi permetto di non condividere a pieno il pensiero di Orwell, basta guardare l’atteggiamento delle grandi masse di giovani laureati, questo significa che occorre liberare la scuola, le università, dalle “pressioni” di chi detiene il potere. 

La gerarchia dei poteri. Se nel passato si conosceva chi fosse a detenere il potere, il re, l’imperatore, il capo religioso, oggi non è più così, chi detiene veramente il potere non appare mai o quasi, ma ha la possibilità di attivare tutta una serie di azioni atte a far si che chi ha la rappresentanza politica debba seguire ed eseguire i programmi decisi nelle stanze dei bottoni. 

I detentori del grande potere economico hanno il possesso azionario dei maggiori canali produttivi, il petrolio, la produzione energetica, le comunicazioni, le case farmaceutiche, le fabbriche di armi, le grandi produzioni agricole (soprattutto OGM). C’é ancora chi si illude che la politica possa essere libera da questo tipo di gerarchia, purtroppo oggi non possiamo avere la diretta percezione di chi veramente comanda, in quanto il potere ha varcato i confini di ogni paese per assumere il comando a livello mondiale. Ormai sono in molti a credere che la globalizzazione sia un bene, senza rendersi conto che sta provocando uno sfacelo sociale. I luoghi comuni proiettati nella mente dei cittadini attraverso i media permettono di guidare i popoli dove i potenti vogliono. 

L’interessantissimo studio delle neuroscienze, il cui cattivo utilizzo permette ai mezzi di informazione di manipolare le masse, può essere ben utilizzato permettendo a noi comuni mortali di comprendere, almeno in parte, i meccanismi con cui veniamo “indirizzati”. 

Partendo dal funzionamento dei due emisferi cerebrali, che vede il loro modo di processare i dati diverso l’uno dall’altro, lineare o sequenziale quello di sinistra, simultaneo quello di destra e ognuno con funzioni specifiche rispetto all’altro. Il nostro cervello ha la capacità di elaborare un numero esorbitante di dati, anche se l’utilizzo che ne facciamo ne impegna una minima parte. 

Sta a noi decidere quanto allenare le nostre potenzialità o preferire che la pigrizia intellettuale abbia il sopravvento e lasciarsi trasportare da ciò che ci viene giornalmente trasmesso. 

Per obiettivi molto più banali come la pubblicità dei prodotti, siamo abituati a pensare che si tratti di semplici spot pubblicitari più o meno gradevoli, ma anche dietro a quei semplici spot ci sono un numero incredibile di esperti (psicologi, sociologi, neuropsichiatri, ecc.) che sanno associare i colori, i suoni, le immagini all’evocazione di stati d’animo così ben congegnati da spingere gli ascoltatori ad “immagazzinare” quei giusti stimoli che torneranno alla mente al momento di acquistare il prodotto. Lasciar credere all’ascoltatore di decidere in piena autonomia è il modo per portarlo alla decisione voluta, con il vantaggio che chi compra si è illuso di aver scelto liberamente. 

Tra gli esempi di vecchia data possiamo far riferimento al fenomeno della capacità di percezione della visione umana cosciente che in un filmato può percepire immagini che siano presenti in almeno 12 fotogrammi per secondo. 

Un’industria produttrice di una famosissima bevanda fu la prima ad inserire in alcune pellicole cinematografiche contenuti pubblicitari con delle sequenze di fotogrammi più brevi, ottenendo un incremento di vendite del 40%. 

Negli anni settanta fu sperimentata la diffusione di messaggi sonori impercettibili alla parte conscia in cui si esortava a non rubare nei supermercati, ottenendo una diminuzione dei furti del 36%. 

In alcune fabbriche fu sperimentato l’abbinamento di frequenze sonore a profumi e messaggi subliminali al fine di aumentare la produttività e migliorare il rapporto (sottomissione) lavoratori-azienda. 

I creatori di immagine che costruiscono la notizia, sono in grado di rendere accettabile al pubblico qualunque azione attraverso una manipolazione dell’informazione (associazione e ripetizione), come ad esempio etichettare una guerra come umanitaria, missili intelligenti, democratizzazione, sicurezza collettiva, ottimizzazione. Sono alcuni dei termini più usati per mostrarci gli eventi negativi come tollerabili se non positivi.

E siccome si dice che una bugia raccontata tante volte acquisisce il valore di verità, la ripetizione di un messaggio, di uno spot, se diventa pervasiva, se avviene molte volte al giorno, può far assorbire il contenuto, le implicazioni del messaggio stesso come se fossero un fatto provato, anche se non lo sono. 

Allo stesso modo si può ottenere il risultato opposto quando l’obiettivo è quello di delegittimare, screditare, criminalizzare le iniziative, le persone, le idee non gradite, applicando denominazioni negative (antisemita, negazionista, revisionista, complottista, terrorista,terrapiattista). 

Le modalità sono sempre le stesse: gli stimoli ripetuti adeguatamente tendono a formare schemi inconsci nelle persone. 

Ma la manipolazione si presta anche ad azioni ancora più gravi, come l’ottenimento del consenso popolare verso cambiamenti, riforme, leggi, restrizioni di libertà, guerre o altro ancora, attraverso lo shock diffuso sulla popolazione. Un esempio di questo é stato il crollo delle torri gemelle legato alla repressione e alle guerre che ne sono scaturite. Si sfrutta la reazione allo spavento come enorme fattore di distrazione e paralisi di massa, inibitore di possibili reazioni e resistenze. Lo shock diffuso viene prodotto da epidemie, pandemie, recessioni, crisi economiche, crolli della borsa, fallimenti, guerre, colpi di stato. 

Per chi si è già reso conto in quale realtà stiamo vivendo si presenta una domanda pesante: cosa fare? Beh intanto il rendersi conto della reale situazione è un buon passo, sul cosa fare occorre confrontarsi e mettere insieme le idee più efficaci che i vari gruppi riescano ad elaborare. Staccarsi dalla TV e dai media in genere, cercare di restare collegati con gruppi che condividono la stessa filosofia, creare sinergie che portino a scelte di vita importanti, ma soprattutto efficaci nella difesa dell’autodeterminazione. 

Il diritto all’autodeterminazione fu riconosciuto a livello internazionale a seguito del processo e della sentenza di Norimberga da cui nacque il Codice di Norimberga. Nel nostro ordinamento giuridico trova fondamento negli art. 2, 13 e 32 della Costituzione. 

La stratificazione del potere 

Che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini diversi è una realtà inconfutabile al di là di qualunque teoria. 

All’inizio, nella preistoria, l’uomo non aveva classi sociali di appartenenza, ma già dalle prime organizzazioni in tribù iniziarono a delinearsi ruoli che in seguito si sarebbero trasformati nella suddivisione in classi. 

Il mondo antico vide una netta suddivisione tra una certa élite sociale e la condizione di schiavitù. Nell’era romana le grandi classi sociali erano due: i patrizi, aristocratici proprietari terrieri, e i plebei, contadini, commercianti e artigiani, utilizzati anche dall’esercito. I patrizi avevano l’accesso alle cariche pubbliche, mentre i plebei ne erano esclusi. Nel quarto e quinto secolo dopo Cristo si struttura il potere della Chiesa che si incrementerà fino a diventare un centro di potere trasversale stabile nel tempo. Nel periodo del feudalesimo l’élite aristocratica dominava sui contadini e lavoratori agricoli. 

L’industrializzazione ha spostato verso i centri industriali i contadini che sono andati a formare quella grande classe denominata proletariato. Oggi si può ancora parlare di proletariato? Probabilmente occorre un altro nome ma la sostanza cambia di poco, anzi, rispetto al secolo scorso la forbice tra ricchi e poveri si è ulteriormente aperta e l’incremento numerico dei secondi sale costantemente. 

Moltissimi autori affrontano il tema delle classi sociali e tra questi una visione abbastanza particolare ed in parte reale è quella del filosofo Probhat Ranjan Sarkar, che vede alla base della formazione delle classi sociali il carattere e la psicologia degli elementi che vanno a formare la sua particolare classificazione. 

A differenza di quanto esposto da Marx che ipotizzava due classi sociali in base alla condizione economica dei rispettivi gruppi, proletariato e borghesia, P.R. Sarkar identifica, tra tutte le sfaccettature delle variazioni nella psicologia collettiva, quattro gruppi fondamentali di mentalità o classi psicologiche che naturalmente non sono mai assolute ma si integrano in ognuno di noi: 

Psicologia del lavoratore – Si accontenta di lavoro, famiglia, salario e non ha aspirazioni filosofiche. La sua mente dipende dall’ambiente. Non riesce a influenzare l’ambiente circostante. 

Psicologia del guerriero – Affronta le difficoltà imposte dalla natura con l’uso della forza fisica, il coraggio, l’onore. In questa classe psicologica troviamo gli avventurieri, gli sportivi, i militari … 

Psicologia dell’intellettuale – Affronta le difficoltà imposte dalla natura con l’uso dell’intelletto. In questa classe troviamo scienziati, insegnanti, artisti, monaci, studenti… 

Psicologia dell’affarista – Non vuole godere degli oggetti materiali, ma trova soddisfazione al pensiero di accumularli. Troviamo affaristi, commercianti, banchieri… 

Secondo Sarkar nel tempo queste classi hanno dominato la scena iniziando dalla fase primitiva dei lavoratori, passando alla fase dei guerrieri quando capotribù diventa l’uomo più forte del clan. Poi diventa re e imperatore. Ma il ministro del re o dell’imperatore o l’ecclesiastico di turno controlla, con il suo intelletto più arguto, la vita e le gesta del sovrano. Si passa con l’avvento della Chiesa al dominio incontrastato degli intellettuali. Con la rivoluzione industriale lo scettro passa di mano ai gestori del denaro, gli affaristi o accumulatori. 

Ognuna di queste ere sociali porta con sé strutture e modalità proprie: architettura, codici sociali, rapporti interpersonali, dogmatismi, obiettivi, ideali, costumi, giustizia, economia, istituzioni. 

Sarkar fa notare come i guerrieri sottomettano la truppa, come gli intellettuali dominino sui guerrieri che dominano, a loro volta, sui lavoratori/soldati e come gli affaristi sfruttano tutte le classi sociali per i propri interessi economici. Quindi la storia è una sequenza di continuo sfruttamento della classe dominante nei confronti di tutte le altre classi sociali. 

A fronte delle diverse visioni occorre essere coscienti di quanto e come sia cambiata la società e di come oggi si possa parlare di classi sociali. 

Il capitalismo strutturatosi con l’avvento dell’industrializzazione, oltre al forte arricchimento degli industriali, ha disumanizzato gli individui che sono andati a formare la classe del proletariato dando vita ad una società dominata dal lavoro in funzione del denaro e vigilata da un crescente apparato burocratico che tende ad alterare i rapporti tra le persone. 

Il potere non è solo esercitato da una classe sull’altra ma si esprime in ogni livello della società che vede nascere una certa resistenza da parte di coloro che il potere lo subiscono. 

Nel medioevo il potere veniva esercitato con la tortura e le punizioni pubbliche per costringere i sudditi all’obbedienza, giungendo all’era industriale i mezzi adottati per “guidare” le masse furono le carceri, i manicomi, ma anche le scuole. 

Il convincimento andò man mano a sostituirsi alla punizione ottenendo una forte riduzione della resistenza e facilitando la gestione del potere. 

Il veloce e forte arricchimento economico delle nazioni industrializzate ha visto la nascita di quel processo chiamato capitalismo globale che, valicando i confini nazionali, instaura il sistema di sfruttamento delle nazioni povere ostacolandone lo sviluppo. Mentre nelle nazioni dominanti industrializzate la possibilità di una formazione culturale diffusa attraverso le scuole e l’università permette un avanzamento scientifico, ma anche sociale, le nazioni dominate non possono avere accesso alla cultura. 

La globalizzazione impone le forme culturali sviluppatesi nei paesi industrializzati come le uniche a cui tutti devono uniformarsi, distruggendo culture e tradizioni millenarie e promuovendo il fenomeno dello spostamento di grandi masse dai paesi dominati verso quelli industrializzati. L’immigrazione e la delocalizzazione del lavoro portano con se enormi problemi per le classi medie dei paesi dominanti che perdono progressivamente il loro potere contrattuale. Questa nuova situazione vede la trasformazione sia del proletariato che della media borghesia in quella classe oggi denominata precariato. 

Per le classi dominanti la possibilità della crescita culturale popolare diventa un ostacolo da combattere, sia limitandone l’accesso, ma soprattutto trasformando la cultura in una sorta di “informazione senza significato”. 

Complici diabolici di questo processo i media, che attraverso la semplificazione e la manipolazione unite alla ridondanza dell’informazione la rendono credibile attraverso la continua ripetizione. L’enorme quantità di informazioni, impossibili da acquisire e metabolizzare, stimola la ricerca della semplificazione che i media forniscono su un piatto d’argento. 

L’industria si è adeguata ai nuovi assetti economici globali e la delocalizzazione della produzione nelle sue varie forme ha forzatamente trasformato la vecchia classe operaia che, come già scritto, da proletariato potremmo oggi individuare come precariato. Sono venuti meno i diritti sindacali conquistati con tanta fatica (a volte male utilizzati). Di questa “nuova” classe fanno parte parte di coloro che hanno perso il lavoro, gli studenti che una volta diplomati o laureati non trovano sbocco nel mondo del lavoro, gli immigrati, i ragazzi che hanno scelto di non studiare ma che comunque trovano occupazioni più o meno occasionali. Un esercito talmente eterogeneo con aspirazioni estremamente diverse che spesso si scontrano tra loro. La parte con scarsa istruzione, facile preda della politica “conservatrice”, i giovani istruiti che non trovano riscontro alle aspirazioni che scuola ed università avrebbero dovuto soddisfare, gli immigrati che si scontrano con una realtà completamente diversa dal mondo patinato che era stato loro presentato. Un esercito di delusi che vivono una condizione esistenziale frustrante, un “recinto” che filtra lasciando passare solo coloro che sgomitano con maggior determinazione e violenza. La lotta si sposta da quella di classe a quella del personale riconoscimento sociale, le teorie marxiste si sono trovate ad essere il bersaglio sia dei conservatori che dei progressisti andando verso una società dell’ognuno per se e Dio per tutti. Il concetto di classe è stato quindi criticato e considerato socialmente angusto e politicamente superato, lasciando spazio ad una serie di condizioni sociali eterogenee difficilmente classificabili. 

La crescente ed affermata cultura individualista si contrappone alla cultura egualitaria etichettandola come vecchia e sorpassata, questo ci riporta al vecchio uso del “dividi ed impera” che facilita il compito alle classi dominanti. 

Se il potere si era già nel tempo stratificato, adesso trova la possibilità di capillarizzarsi in ogni ambito lasciando sempre meno spazio ad una lotta per i diritti sociali. 

Oggi all’interno dell’attuale società assistiamo a fenomeni incomprensibili, almeno per chi come me ha fatto delle scelte di vita dello “starne fuori”.  

Nel contesto di argomenti frivoli e privi di importanza, in un certo periodo, uno stimolo a mobilitare le menti degli “studiosi dei social” è stato quello della truffa attuata dalla influencer Chiara Ferragni, la quale approfittando della scarsa personalità dei propri “follower” (sembra che ne abbia 30 milioni), guadagna cifre astronomiche solo mostrando fotografie in cui indossa un dato prodotto, ella ha pubblicizzato un prodotto affermando che una parte del ricavato sarebbe andata ai bambini ammalati di un certo ospedale, mentre quei soldi non li ha mai donati. Saltando il deprecabile gesto di fare la cresta anche sul destino di bambini gravemente ammalati, che fa comprendere da chi sono influenzate larghe fette di popolazione, quello che mi interessa evidenziare è il significato di “influencer” e la personalità dei suoi “follower”. 

Sui social qualcuno si è divertito a far circolare un’immagine che in qualche modo rappresenta una certa verità:

 L’influencer è solitamente un individuo che possiede un certo grado di conoscenza relativamente ad alcuni prodotti o che comunque li utilizza abitualmente, tanto che sue opinioni arrivano a influenzare quelle di altri consumatori orientandone le scelte.

Il follower è un individuo che crede o ammira un particolare personaggio ed essendo insicuro sulle proprie idee o gusti, copia quelle del suo influencer  da cui prende idee per acquistare prodotti o assumere comportamenti.

Il prof. Robert Kelly facendo uno studio su questo fenomeno ha identificato cinque categorie di followers: 

  1. il follower alienato: seguace passivo, dotato di senso critico e indipendente. E’ il seguace che non si espone mai davanti al leader e nelle sedi opportune; 
  2. il follower conformista: è un seguace attivo che dimostra grande impegno, tuttavia non possiede un pensiero critico. Kelly definisce infatti questi follower come Yes People; 
  3. il follower pecora: seguace passivo e acritico, sottomesso e privo di iniziativa; 
  4. il follower pragmatico: seguace la cui principale caratteristica è l’adattamento, la plasmabilità in funzione del leader che in quel momento si vede costretto a seguire; 
  5. il follower efficace: seguace attivo e dotato di pensiero critico, che dimostra un comportamento uniforme con tutti i membri del team. Le principali caratteristiche di questa tipologia di followership sono: l’integrità, intesa come purezza di valori; l’affidabilità, intesa come responsabilità di portare a termine i progetti assegnati; lo spirito di collaborazione, ovvero la capacità di cooperare con gli altri membri della squadra per raggiungere l’obiettivo comune; il coraggio, inteso come la capacità di esprimere la propria idea senza condizionamenti di alcun genere; la resilienza, intesa come la capacità di trovare la forza di rialzarsi anche in caso di difficoltà. 

A “chiusura del cerchio” è nuovamente necessario tornare al rapporto di interdipendenza tra leadership e followership. E’ infatti importante ricordare che, se è vero come è vero che il modello di followership influenza quello di leadership, è altrettanto vero che il leader influenza i suoi followers. 

Tanto è confermato dal Prof. R. Kelly che ha evidenziato come i leaders con scarsa fiducia in sè stessi costruiranno team di conformisti; capi autoritari e poco favorevoli al confronto svilupperanno una squadra di pecore prive di pensiero critico; così come, infine, leaders efficaci vorranno essere alla guida di followers attivi, dotati di pensiero critico, passione e determinazione nel raggiungimento degli obiettivi della squadra. 

Più in generale chi partecipa passivamente alla vita di gruppo e contemporaneamente manifesta un pensiero critico dipendente, è definito “pecora” per evidenziare l’assenza di volontà e di sottomissione passiva. Sono persone che accettano apaticamente i compiti a loro assegnati e seguono gli altri senza farsi molte domande.

Ho lasciato per ultimo, non certo per demerito ma al contrario, per la cura, l’intelligenza e la perizia con cui descrive il livello di manipolazione che è in grado di attuare il potere mondiale. Un vecchio libro scritto dal grande Noam Chomsky sul “capire il potere” di cui mi azzardo a fare una sintetica descrizione che non rende certo merito a questo autore, ma che conclude utilmente questo inquietante capitolo.

Già dalla presentazione che viene fatta al libro si comprende la portata di questo testo.  Ci si chiede infatti come sia stato possibile aver lasciato cadere la politica degli Stati Uniti ostaggio delle oligarchie finanziarie e del complesso militare-industriale, lasciando che la superpotenza americana diventasse la più grande minaccia per la pace nel mondo. Come è riuscita questa macchina perversa a  far passare i propri obiettivi predatori per un impegno in nome della libertà e della pace?  Quali mezzi di persuasione possono essere così potenti da far approvare e fortificare i poteri antidemocratici che moltiplicano i privilegi dei pochi e opprimono i molti?

Perché la maggioranza delle persone è incapace o addirittura refrattaria a smascherare le menzogne di chi governa il mondo, e costruire un’alternativa a un sistema economico basato sull’avidità e destinato all’autodistruzione? 

L’autore risponde in maniera cristallina a questi terribili interrogativi attraverso una meticolosa ricostruzione degli avvenimenti analizzati criticamente, e forse proprio per questo poco comprensibili ai più. Dalle guerre in Corea e Vietnam alla controinsurrezione in America Centrale, finanziata con i soldi del narcotraffico, dalle depredazioni africane all’appoggio garantito a sanguinari dittatori, dallo scandalo della questione palestinese alla complicità in alcuni dei peggiori massacri del Novecento, dalla destabilizzazione del Medio Oriente alle corresponsabilità nell’apartheid sudafricana. Capire il potere non è solo un’illuminante rilettura critica, senza sconti e senza inutili astrazioni, della storia recente degli Stati Uniti, ma anche una lezione universale sul modo in cui tutti noi possiamo scardinare i meccanismi dello sfruttamento e sfuggire alle verità ufficiali manipolate. Chomsky ci insegna a coltivare il senso critico di fronte agli eventi della Storia, per ricomporre la faccia del potere che si nasconde dietro le sue mutevoli maschere. Per comprendere il presente e riappropriarci del futuro.

Il libro raccoglie discorsi e dibattiti tenuti da Noam Chomsky, considerato a ragione uno dei più notevoli pensatori e attivisti politici del nostro tempo. 

Le discussioni spaziano su una vasta gamma di argomenti – dal modo di operare dei moderni mezzi di informazione alla globalizzazione, al sistema educativo, alla crisi ambientale, al complesso militare-industriale, alle strategie degli attivisti politici e oltre – e offre una prospettiva rivoluzionaria per giudicare il mondo e capire il potere. Il suo maggior contributo consiste nella padronanza di un’immensa mole di informazioni e di dati, e nell’abilità infallibile con cui sa smascherare, in ogni contesto, i meccanismi e gli inganni delle istituzioni che oggi detengono il potere. Il suo metodo si basa sull’insegnamento attraverso esempi concreti, non su astrazioni, per aiutare le persone a imparare a pensare criticamente per conto proprio. 

Il libro è un potente mezzo per far comprendere a coloro che “vogliono capire” come ogni progresso dell’attivismo politico nel suo tentativo di cambiare il mondo venga puntualmente contrastato e distrutto dai media che guidano sapientemente il nostro modo di pensare.  Questo libro è stato realizzato prima degli avvenimenti del l’11 settembre 2001, ma le risposte a molti dei più importanti interrogativi suscitati da quegli attacchi si trovano già qui. Perché i mezzi di informazione offrono una visione così limitata e acritica e un’analisi così poco accurata? Mentre il libro era già in stampa i gli dirottati a mano armata andavano a schiantarsi contro le Torri gemelle di New York facendo migliaia di vittime e innescando ripercussioni potenzialmente assai gravi nella società statunitense e nel mondo intero. I mezzi di informazione americani hanno dedicato moltissimo spazio agli attacchi e alle loro conseguenze. Ma, nella stragrande maggioranza, si sono astenuti dall’avviare un esame critico e accurato del contesto in cui gli attacchi stessi si sono verificati.  Quando le autorità americane guidate dal presidente Bush hanno annunciato che quell’attacco era “faro più luminoso della libertà e dell’iniziativa individuale nel mondo”, i media americani hanno guidato tutti i media del mondo occidentale a ripetere quel messaggio come un mantra stimolando l’odio contro un nemico già vittima delle prepotenze americane. Il New York Times scrisse che gli autori degli attacchi avevano agito «in odio a valori cari all’Occidente, come la libertà, la tolleranza, la prosperità, il pluralismo religioso e il suffragio universale. Vistosamente assente dalle cronache e dai commenti dei media americani era un esame completo e realistico della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi effetti sul resto del mondo. Era difficile trovare qualcosa di più di un fuggevole accenno all’immane strage di civili iracheni durante la guerra del Golfo, alla vera e propria devastazione della popolazione irachena provocata nell’ultimo decennio dalle sanzioni richieste e promosse dagli Stati Uniti, al ruolo centrale rivestito dagli USA nell’appoggio riservato per trentacinque anni all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, al loro sostegno in tutto il Medio Oriente a brutali dittature che opprimono le popolazioni e così via. Ugualmente assente era un qualsiasi accenno al fatto che la politica estera americana dovrebbe essere oggetto di sostanziali cambiamenti.  Bene mi fermo qui, ma credo sia più che sufficiente per comprendere che pur parlando di una situazione di 25-30 anni fa basterebbe cambiare le date per descrivere l’identica situazione mondiale odierna dove coloro che hanno sottomesso il mondo attraverso atroci devastazioni sono angeli contro i demoni. 

Di seguito la risposta di Noam Chomsky ad una signora durante una delle numerose riunioni a cui il libro fa riferimento:

Signora – Noam, credo che la ragione per cui tutti noi siamo venuti qui a discutere con lei sia che vogliamo sapere quello che pensa della situazione mondiale, e cosa si debba fare per cambiarla. Secondo lei, la contestazione attiva ha portato a molti cambiamenti negli Stati Uniti negli ultimi decenni? 

Noam Chomsky –  Sicuramente ha portato grandi cambiamenti. Non credo che la struttura delle istituzioni sia mutata, ma si possono osservare cambiamenti reali dal punto di vista culturale e sotto molti altri aspetti. Mettiamo a confronto, per esempio, due amministrazioni presidenziali degli anni sessanta e degli anni ottanta, l’amministrazione Kennedy e l’amministrazione Reagan. Ebbene, in un certo senso, contrariamente a quello che dicono tutti, avevano molto in comune. Entrambe salirono al potere lanciando false accuse contro quelle che le avevano precedute, alle quali imputavano di essere state troppo deboli e di aver permesso ai russi di superarci; nel caso di Kennedy si denunciò un “divario missilistico” inesistente, e nel caso di Reagan si parlò di una fantomatica “finestra di vulnerabilità”. Entrambe le amministrazioni furono contrassegnate da una vigorosa escalation nella corsa al riarmo, che portò a una maggiore dose di violenza nei rapporti internazionali e a un aumento degli stanziamenti, con i soldi del contribuente, a favore delle grandi industrie americane attraverso la spesa militare. Entrambe erano fin troppo nazionalistiche, entrambe cercarono di diffondere la paura tra la popolazione mediante una grande isteria militaristica accompagnata da un forte entusiasmo sciovinista. Entrambe avviarono una politica estera estremamente aggressiva in tutto il mondo: Kennedy accrebbe vistosamente il livello della violenza in America Latina; in realtà, la piaga della repressione culminata negli anni ottanta sotto Reagan era in gran parte il risultato delle iniziative di Kennedy. Naturalmente, l’amministrazione Kennedy era diversa da quella di Reagan in quanto, almeno nei proclami, e in parte anche nella pratica, si curò di attuare negli Stati Uniti una politica sociale riformistica, mentre l’amministrazione Reagan si impegnò in senso opposto, per eliminare da noi i sistemi previdenziali e assistenziali. Ma ciò rifletteva forse, più che altro, la diversa situazione politica internazionale nei due periodi. 

Ma oltre alla grande manipolazione ad opera dei grandi poteri noi dobbiamo confrontarci con la manipolazione giornaliera con chi ci sta vicino per lavoro, per frequentazioni a vario titolo, con chi fa parte della nostra famiglia.

I manipolatori, anche quelli più comuni e vicino a noi, sono abili controllori nei nostri confronti. È frequente l’utilizzo di frasi ad effetto volte a minare la nostra autostima, quelle più comuni hanno l’aspetto di un complimento con un sottile riferimento a qualche nostra incapacità, quelle più perfide si mostrano positive verso di noi ma stimolano dei sensi di colpa. Altre volte sempre con un’apparenza affettiva ci spingono a perdere quel po’ di certezza acquisita, è caratteristico l’atteggiamento del manipolatorie nel porsi come il rifugio in colui o colei che è ingrato di comprendere i nostri problemi. Quando pensano di non riuscire diversamente utilizzano il ricatto morale oppure la restituzione di un debito morale. Insomma dobbiamo migliorare la nostra consapevolezza per vivere in maniera più equilibrata anche con chi abbiamo più vicino.

Concludo cosciente che trattare questo argomento è un’impresa titanica e di non poter essere assolutamente esaustivo, con la famosa citazione di Aldous Huxley 

“ la dittatura perfetta avrà la sembianza di una democrazia, una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno mai di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù ”.

Le dieci regole della manipolazione mediatica

  1. La strategia della distrazione. L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élite politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l’Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali.
  1. Creare problemi e poi offrire le soluzioni.  Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
  1. La strategia della gradualità.  Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta.
  1. La strategia del differire.  Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. È più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
  1. Rivolgersi al pubblico come ai bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno.
  1. Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione. Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti…
  1. Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità. Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
  1. Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti…
  1. Rafforzare l’auto-colpevolezza Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!
  1. Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.  Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

                                                                                                          Noam Chomsky

La tolleranza  arriverà ad un tale livello che alle persone intelligenti sarà vietato fare qualsiasi riflessione per non offendere gli imbecilli.

                                                                                                       Dostoevskij

Coloro che non possono manipolarci, cercano di manipolare gli altri contro di noi.

Erich Fromm

Sire non c’è bisogno di combatterli, basta dire che quelli con le torce vogliono bruciare quelli con i forconi.

                                                                                                       Anonimo

Complottista è chi nasconde i complotti, non chi li svela.

Giulietto Chiesa

 Gli italiani (solo loro?) non amano sentire le voci libere, le verità disturbano il loro cervello in sonnolenza perenne. Preferiscono le voci che non danno loro problemi, che li rassicurino sulla loro appartenenza al gregge. 

Andrea Camilleri

La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere. 

                                                                                                 Dario Fo

Il Potere sta nel fare a pezzi le menti umane. 

George Orwell

Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi 

Wiliam Shakespeare

La democrazia esiste dove non c’è nessuno così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi.

Jean Jeaques Rousseau

Il pettegolezzo muore quando incontra le orecchie di una persona intelligente.

                                                                                                 Anonimo

Soffro per questa tirannia mascherata da libertà.

Luigi Pirandello

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